Stones di fine gennaio


30 Gennaio 2010


C’è un grande orizzonte al di là dei posti in cui sono cresciuto. Fatto di neve e pianura. Di luoghi in cui quotidianamente cerco un futuro. E vi scorre un fiume in fondo alla valle da cui adesso scrivo, torbido, irrequieto e impalpabile, dentro cui lentamente muore gennaio, trafitto da una pioggia fredda e lenta. Ascoltare i Pink Floyd è come velare il tutto di un leggero strato di depressione aggiuntivo che forse non potrei permettermi. Questo è il periodo dell’anno in cui, come Pink, potrei starmene tranquillamente seduto davanti ad un televisore senza battere ciglio. In uno stato di atarassia. In una condizione di estrema inconsistenza, lacerato da mille pensieri, e dall’apatia.
Tolgo i Floyd e lascio che la mia mano scorra lentamente sui cd polverosi e impilati in modo distratto. Ho sempre pensato che ci fosse un qualcosa di sadico nella scelta dei dischi da ascoltare nella mia stanza. Dare il privilegio dello stereo ad un album piuttosto che ad un altro è come negare ad una manciata di canzoni di fare da colonna sonora alla tua vita. O alla vita che immagini dentro di te.


gli Stones con Mick Taylor
Il potere di un disco è quello di, pur essendo stato pubblicato anni prima della tua nascita, riuscire a raccontare qualcosa del tuo stesso mondo, della tua storia, dei tuoi pensieri, persino del tuo futuro. Questo accade in ogni campo dell’arte. Potrei ritrovarmi in un romanzo di Calvino, o in un quadro di Goya, così come ora il mio tempo incede con gli Stones.Ho scelto Sticky Fingers.
Ho scelto un album nato 9 anni prima di me, in un gran bel periodo per il rock.
Mick Taylor era appena diventato il sostituto di Brian Jones, gli anni sessanta morirono con lui e così anche parte degli eccessi che dagli esordi frastornarono e incensarono l’immagine del gruppo inglese. La gestazione di Sticky Fingers durò più di un anno, periodo in cui Jagger e Richards ebbero modo di farsi amici tanti musicisti di valore, come Billy Preston e Bobby Keys che finirono con il condizionare, in meglio, la stesura e la resa su disco dei brani destinati a finire tra i solchi del nuovo lavoro.
Ascoltare Sister Morphine e subito dopo Dead Flowers è un’esperienza che pochi album possono offrire. L’aria malsana e tremebonda di Sister Morphine, supportata dal prezioso intervento di Ry Cooder rende l’atmosfera fredda, umida e nebbiosa proprio come quella di una giornata di fine gennaio. La voce di Mick in un scendere e salire da brivido, in una storia di droga e disperazione, in questo brano vi sono echi di un mondo urbano, il risuonare di parole sconnesse, sussurrate da un letto di ospedale, osservando la vita dalla vicinanza alla polvere.
Dead Flowers è invece l’esatto contrario, è una giornata di primavera. Un blues intriso di sarcasmo e divertita passione musicale. è qui che le chitarre di Keith e Mick si intrecciano, si incastonano giocose su un letto di fiori.
L’inferno e il paradiso degli Stones, Sticky Fingers si conclude nel modo più inatteso possibile. Con una sinfonia esotica su cui Mick lentamente parla di me e di se stesso. “Quando il vento soffia e la pioggia che cade è gelata, alla finestra c’è un volto che conosci” canta, “dormo sotto cieli proprio strani, dopo giorni così folli”. Adesso muoviamoci, adesso andiamo, sotto la luna piena, nella strada.
Arrivo Mick.
Mi allaccio le scarpe e scendo.

Faces - Ooh La La

In principio furono gli Small Faces. E il modernismo era presso loro. E gli Small Faces erano mods. Compito dell’ascoltatore fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Parafrasando Umberto Eco, questa potrebbe essere un’introduzione perfetta per iniziare a parlare di questo disco, di questa band e dei membri che la componevano. La verità è che gli Small Faces furono una grande band. Su questo non si discute. Fondati da Steve Marriott e Ronnie Lane attorno al 1964, da subito condivisero la medesima grazia compositiva di altre band come Who, Kinks, e Rolling Stones. Ispirati dai ritmi d’oltreoceano, si posero come demiurghi del nuovo rock inglese, introducendo accenti di canti gospel e riff smaccatamente blues che andavano ad arricchire semplici brani merseybeat. Nel 1968 esce Ogden’s Nut Gone Flake, capolavoro della band e opera in cui gli archetipi celati nei primi brani affiorano sino a diventare splendenti e magnifici. Ascoltare questo disco è un’esperienza fondamentale per chiunque abbia intenzione di conoscere e capire chi fossero e cosa furono in grado di fare gli Small Faces. Basterebbe anche solo ascoltare la bellissima Afterglow (of your love), in cui blues, soul e atmosfere lisergiche si mescolano in un crescendo di meravigliosa armonia.
Dopo la pubblicazione di Ogden’s, il gruppo praticamente si sciolse. Marriott convolò a nozze con gli Humble Pie di Peter Frampton e fu rimpiazzato, aggettivo forse poco corretto, da Rod Stewart che portò con sè l’amico chitarrista RonnieWood. Ora, potrei benissimo passare ore a scrivere elogi di questi due signori, che umilmente eleggerei al rango di semi-divinità in una mia ipotetica religione politeista, ma mi limito a dire che essi, o meglio, il loro arrivo portò alla nascita, e alla crescita dei Faces. Svezzati assieme a Jeff Beck a pane e blues, Ron e Rod, aiutati dall’organo gospel di McLagan e da una sezione ritmica eccezionale, posero la basi per una manciata di album caratterizzati da un profondo, viscerale amore per le contaminazioni americane pur mantenendo una propria personalità smaccatamente british, accostandosi ai gusti di fans e critici che in seguito assaporeranno quei brani così semplici e gustosi da farli divenire feticci irrinunciabili per le nuove generazioni revivaliste e non. Croce e delizia dei Faces fu la voce di Stewart, profonda, genuina, grezza e così delicatamente rock da meritarsi un discreto successo al di fuori della band. L’ego di Rod crebbe a dismisura, e ciò lo portò a distaccarsi lentamente ma inesorabilmente dal resto del gruppo. Non partecipò alle prime sessions per la stesura del quarto disco della band e delegò a Ronnie Lane la scrittura di molti dei brani da incidere. Per questo motivo, ad un attento ascolto, Ooh La La appare molto più folk rispetto ai precedenti. Le divagazioni acustiche e la voce di Lane erano la parte più delicata dei Faces, in totale contrasto con l’irruenza e la ruvidità di episodi firmati da Stewart, Wood e McLagan come Silicone Grown o My Fault che dominano la prima facciata del nuovo lavoro. La parte conclusiva dell’album e, purtroppo, dell’intera carriera dei Faces è ad appannaggio della creatività e della sensibilità pop di Lane, che con la bellissima title-track creò un caso unico nellla carriera della band. Ooh la la fu scritta pensando alla voce di Stewart, un regalo di non poco conto, pensando alla rivalità ormai accesa tra i due compositori. Rod però decise che quella canzone non era adatta a lui e rifiutò l’offerta lasciando tutti di stucco. Glyn Johns, produttore dell’album, era sull’orlo di una crisi di nervi. Nei quattro mesi passati assieme ai Faces per le registrazioni del disco aveva cercato in tutti i modi di tenere insieme la band, l’incisione del brano che dava il titolo all’album andava completata, a qualsiasi costo. Escluse quindi, le voci principali, Johns suggerì a Ronnie Wood di cimentarsi nella prima prova canora della sua carriera. Fu un suggerimento azzeccato. La voce di Wood, cui a tratti si unisce quella di Lane coglie piacevolmente di sorpresa ogni ascoltatore. Il suo timbro, la sua cadenza e la sua ingenua proposizione vocale sono il punto più alto e finale dell’ultimo disco dei Faces poichè non solo lo rende un unicum della loro storia ma testimonia perfettamente un periodo di dissapori che da lì a poco rese vani i tentativi riconciliatori di Johns.
Dopo la pubblicazione dell’album, Stewart esternò parole di disgusto nei confronti di Ooh La La, mandando in crisi la band. Ronnie Lane si arrabbiò così tanto che decise di lasciare i Faces e si dedicò ad un nuovo progetto. McLagan e Kenney Jones di certo non la presero bene, e così pure Ronnie Wood, che due anni dopo entrò nella formazione titolare dei Rolling Stones. Nel 1997 dopo anni passati su una sedia a rotelle, Ronnie Lane morì. L’anno successivo, l’ormai canonizzato leggenda Rod Stewart, registrò finalmente la parte vocale di Ooh La La. Non so se questo fu un omaggio di Rod per il compagno scomparso, quello che conta è che la sua voce, struggente, colora di tinte auree un brano così semplice da sembrare bellissimo, ora come 37 anni fa.

The Doors - L.A. Woman

L’ultimo album dei Doors, tenendo a lunga ( e debita) distanza le due mediocri successive esperienze incise da Manzarek e compagni, è anche quello più celebrativo dell’anima blues del gruppo di Venice. In esso sono evidenti i richiami alla musica nera verso cui Morrison nutriva una naturale propensione, un’ammirazione mistico-religiosa, integralista, che spesso sconfinava in un sinestetico divenire parte della propria anima e, se vogliamo, della propria vita artistica e non. Egli, incline all’epica decadente, era affascinato dall’immaginazione e dal rendere arte la propria esistenza. Scelse il blues perchè era la forma più sincera di musica cui affidare la propria creatività, lo scelse anche perchè tramite esso poteva riportare alla luce i fantasmi e le visioni, le paure e le sensazioni di un’epoca antica, di uomini saggi, di disadattati, di gente che lavorava sodo e amava, la vita e le donne, i sogni e le responsabilità.

Al di là di tutte le possibili esegesi della poetica Morrisoniana, è quindi possibile dire che L.A. Woman sia la realizzazione di tutte le massime aspirazioni artistiche di Jim, un letterato, un cinefilo, una rockstar, ma prima di tutto un bluesman.
Sebbene registrato in maniera discontinua e disordinata, il disco si presenta in una forma del tutto compatta, offrendo brani incorniciati come in un trompe d’oeil seicentesco, in cui però, figure del “nuovo mondo” vanno a perdersi in uno sfondo tempestoso, assordate da una pioggia incessante e scrosciante, che dolcemente li assopisce, avvolegendoli in una leggera melodia di piano. Alla fine l’essenza dei Doors è questa, l’essere cavalieri in una tempesta che lentamente sfuma, ma che nella sue scorribande tormenta e lacera l’America, le città, i deserti, una generazione che placidamente li accoglie nei propri fragili castelli di sabbia.
Una delle poche tracce ad affievolire il crescendo di pathos creato dai primi brani smaccatamente blues è Hyacint House, una quasi canzone d’amore, nata come per gioco durante le prove a casa di Ray. In essa, Morrison disegna i pensieri tormentati di un poeta che di li a poco avrebbe lasciato questa realtà, chiudendo “le porte” di un’esperienza sensoriale fuori dal comune, riposandosi nell’immortalità. Con una voce distesa e decisamente austera, Jim sembra davvero soffrire la propria esistenza, in cui nessuno sembra lasciarlo realmente essere ciò che desidera (I need a brand new friend who doesn't bother me, I need a brand new friend who doesn't trouble me), e di cui ormai egli sembra veramente stanco, tanto da sperare di incontrare qualcuno che non abbia più bisogno di lui (I need someone, yeah , Who doesn't need me), e che probabilmente lo accetti semplicemente per quello che è: un uomo. Ancora una volta “la fine” la sua meravigliosa amica, torna ad essere anche l’unica speranza di cui si ammanta il futuro (And I'll say it again. I need a brand new friend : the end). L’inflessione con cui Morrison canta gli ultimi versi, il dettaglio con cui egli accentua il proprio desiderio, in una canzone “minore” dell’intero repertorio dei Doors, è forse uno dei più riusciti colpi di genio del disco, un album blues, fatto di canzoni blues, in cui un uomo canta canzoni tristi di un “profondo sogno blu”.
Pochi giorni dopo la pubblicazione di L.A. Woman, il corpo di Jim verrà trovato privo di vita in una vasca da bagno, a Parigi. Se David fosse stato vivo, forse avrebbe scelto di dipingere lui al posto di Marat, e sul biglietto stretto nella mano del cadavere esanime, avrebbe trovato scritta solo una sola parola: vita.